Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 14,15-21)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».
In lungo e in largo Gesù si è speso per spiegare, prima, e per concretizzare, in seguito, il significato dell’amore. Lo ha dovuto fare superando le logiche integralistiche ebraiche che facevano coincidere l’amore con le norme mosaiche. Norme che bastava applicare in alcuni momenti della vita e che non erano né rivedibili con l’evolversi dei tempi, né tanto meno applicabili da chi si portava dietro il marchio della diversità.
Gesù ha dovuto lottare per indicare cosa è veramente l’amore e soprattutto per delineare quali sono le vere misure dell’amore.
L’amore dello schiavo piuttosto che quello dell’uomo libero, della donna piuttosto che quello dell’uomo, dello straniero piuttosto che dell’Ebreo, del Galileo piuttosto che del Giudeo, del cieco piuttosto che del vedente, dello storpio piuttosto che deambulante, del pubblicano piuttosto che del fariseo, del servo piuttosto che del padrone, del nero piuttosto che del bianco, del nullatenente piuttosto che possidente … questi erano amori non qualificabili e non misurabili con nessuna unità di misura perché appartenenti a persone di una categoria inferiore.
L’amore per Gesù non si calcola né in metri, né in centimetri, né tanto meno in chilometri; non si misura in chili o in grammi, né in gradi o in ampere, né, a maggior ragione con il PIL.
Amare per Gesù vuol dire dare la vita per tutti. Infatti per Gesù se amare vuol dire osservare i comandamenti, è necessario chiarire che questi non sono più dieci, ma solamente due: amare Dio e amare il prossimo. Per amare Dio e amare il prossimo non si possono non osservare le feste, non si può uccidere nel grembo materno, né sfregiare una persona con l’acido, né rubare il suo patrimonio, né clonare le carte di credito, né denigrare sui social, né continuare a produrre materiale di plastica, né discriminare una persona per la sua diversità.
Amare dio e il prossimo è rendere ciascuno un fratello. È spendere il proprio tempo per amore. È non dimenticare di pregare e di sporcarsi le mani con i poveri. È, in altri termini, A M A R E!
Gesù in questo modo indica prospettive nuove di vita e afferma indirettamente che sono aperte le iscrizioni per la scuola in cui s’insegna e s’impara l’arte di amare per rimanere con Lui “for ever”, per sempre.
Questa scuola comincia in famiglia, quando s’insegna ai figli a pregare e a conoscere Gesù che ha dato tutto per noi; si perfeziona nell’adolescenza, quando si comincia a conoscere Gesù come l’amico su cui poter contare; si concretizza nelle scelte operate con gesti di carità, quando si comincia a capire che Cristo chiama a scandalizzare il mondo amando, come Lui ha fatto sulla croce; si prosegue con la coerenza negli anni a seguire, reiventandosi gesti di disponibilità e soprattutto non tirando mai i remi in barca.
L’amore non è un selfie in cui basta un attimo e ci si immortala per sempre mettendo a tacere la coscienza; non è un gesto occasionale che permette di gongolarsi dinanzi agli altri; non è una tessera che sancendo l’appartenenza ad un’associazione o un gruppo ecclesiale o ad uno di volontariato, garantisce lo stare dalla “parte giusta”.
L’amore è metterci la faccia. È contribuire a realizzare un mondo diverso. È amare senza misura. È l’arte di chi prolunga per sempre la risurrezione di Gesù perché … chi ama non muore più.
Il vostro parroco
Antonio Ruccia