Dal vangelo secondo Luca (Lc 18, 1-8)
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
In un contesto di città, apparentemente diverso dal solito perché spesso abbiamo incrociato Gesù sulla strada o nelle periferie, il brano evangelico indica una sintesi tra misericordia e giustizia. Una sintesi che richiede una preghiera e che – a volte – vorrebbe che i credenti fossero relegati solo “in affari religiosi”.
La città nella Bibbia è il luogo in cui l’esperienza della terra, quella storica, è anticipazione e proiezione di quella ultraterrena. E’ Dio che chiede di abitare la città. E’ lui che chiede spazio per entrare nel vissuto delle famiglie. Ed è lo stesso Dio che chiede che nelle città non si perpetuino le ingiustizie a danno dei poveri, anzi che siano ampiamente riscattate.
Comprendiamo come il rifiuto delle città nei confronti di Gesù, sia a Betlemme sia a Gerusalemme, è il segno evidente che pregare non è l’ultima spiaggia prima di mollare. Pregare è credere che cambiare è possibile e realizzare un mondo di giustizia è insito nell’amore per Dio e per il prossimo.
Nella città del brano evangelico, il giudice è “ingiusto” perché non si pone dalla parte della Legge (Dt 14) e conseguentemente esclude poveri ed emarginati. All’opposto la vedova, che non aveva nulla e a cui restavano solo gli avanzi, importuna il giudice chiedendo, attraverso la sua insistente preghiera, la realizzazione del piano della misericordia di Dio nell’ ambiente storico, nella città.
I credenti sono chiamati a chiedere tutto e, proprio attraverso la preghiera, a lottare contro le ingiustizie. Tutto ciò si realizza nella concretizzazione di un piano di misericordia. Infatti, pregare non è un riempirsi la bocca di parole vuote, ma conformarsi a Dio camminando nella storia con un cuore puro al fine di accogliere e realizzare il regno di Dio. Con la preghiera si vive un’esperienza di vita che mira a realizzare la misericordia.
I misericordianti non sono i preganti piangenti. Non sono i cantori delle nenie e delle tragedie annunciate o delle proteste urlate. Sono coloro che s’impegnano a realizzare, con le ginocchia piegate nel silenzio dell’adorazione, quell’amore che deve vincere il vuoto della nostra società dell’indifferenza.
E’ dalla preghiera che si genera la realizzazione di un regno di amore. Un regno che non si coniuga con le ingiustizie della società del post/moderno. Non esiste, infatti, la società delle post-ideologie. La nostra è una società masochista che si fa male per non piegare mai le sue ginocchia e chiedere misericordia per tutti.
Pregare è lottare. E’ chiedere. E’ spendersi in atti di amore. E’ stare e non scappare. I preganti sono misericordianti che pregano e lottano per i poveri, per la pace, per il lavoro, per la famiglia e per chi non ha voce per farlo. I preganti sono coloro che aiutano a uscire dalle sacche dell’indifferenza e scovano le periferie esistenziali dell’umanità.
Il vostro parroco
Antonio Ruccia